Ogni terapeuta è un terapeuta esistenziale fintanto che, con tutto il suo bagaglio di conoscenze e le sue nozioni sulla dinamica e gli schemi di comportamento, è capace di mettersi in relazione col paziente, come dice Binswanger, come “un’esistenza che comunica con l’altra”. Questo significa lo sviluppo di una dimensione intersoggettiva attiva e vitale basata sulla sintonizzazione e sulla empatia, che struttura la possibilità di attingere direttamente dall’esperienza e sulla vita emotiva dell’altro. In questo modo la relazione terapeutica sviluppa nel qui ed ora una condizione esperienziale di un vissuto attuale ed evocativo in cui si afferma la centralità dell’analisi dei vissuti soggettivi e coscienti, rispetto ai comportamenti osservabili, e rispetto ad ipotetici accessi diretti all’inconscio. L’analisi dei vissuti è la via regia per la comprensione del mondo dell’altro.
Un’altra implicazione significativa è l’importanza attribuita alla presenza. Il rapporto del terapeuta con il paziente è preso in senso reale, e il terapeuta non è considerato solo un generico specchio ma un essere umano vivo che, in quel momento, non si preoccupa dei propri problemi, ma di comprendere e sperimentare, per quanto possibile, l’esistenza (e quindi anche i problemi) del paziente. Questa importanza attribuita alla presenza deriva organicamente dall’ idea esistenziale centrale della “verità-nel-rapporto”, concetto formulato per la prima volta con radicale chiarezza da Kierkegaard. La verità esistenziale interessa sempre la relazione della persona con qualcosa o qualcuno, e il terapeuta è sempre parte di questo “campo” di rapporto. Anzi, non solo questo “campo” È la migliore strada del terapeuta per arrivare a comprendere il paziente, ma il terapeuta non può realmente “vedere” il paziente a meno che non partecipi a questo campo. Binswanger fa notare che, quando la terapia fallisce, il terapeuta deve prima di tutto chiedersi se la responsabilità non è sua. E per ‘responsabilità’, si affretta a precisare, egli non intende
“…una deficienza tecnica, ma l’insuccesso di gran lunga più fondamentale che consiste nell’incapacità di risvegliare o riaccendere quella scintilla divina nel paziente e solo una vera comunicazione da esistenza a esistenza può produrre e che sola possiede, con la sua luce e il suo calore, il fondamentale potere di liberare una persona dal cieco isolamento… e prepararla a una vita di vera comunione…”
Questa presenza non deve venire confusa con il sentimentalismo; essa si basa piuttosto sulla reale relazione del terapeuta con l’altra persona e si manifesta non in belle formulazioni intellettuali, ma in un’ analisi empirica, diretta, del rapporto umano. La presenza non implica neppure che il terapeuta debba chiacchierare a lungo con il paziente, o debba proiettare le sue idee o i suoi sentimenti nella terapia. Al contrario; i terapeuti esistenziali possono bene servirsi del silenzio più di quanto fanno altri terapeuti, ma non se ne servono come di un vuoto bensì come di una forma significativa di comunicazione. Il terapeuta è quello che Socrate chiamò la “levatrice” veramente reale nell’ “essere là”, ma lo scopo preciso dell’ essere là è quello di aiutare il paziente a dare alla luce qualche cosa che proviene dal paziente stesso.
Un ovvio corollario di questo indirizzo è che il terapeuta dovrà diventare particolarmente cosciente di qualsiasi cosa impedisca in lui la completa presenza ed analizzarla. Ogniqualvolta il terapeuta si trovi a reagire in modo rigido o predeterminato, può ben chiedersi se sta cercando di evitare l’angoscia nel continuo confronto tra sè e il paziente e se, come risultato, non sta perdendo qualcosa di veramente reale nel rapporto.
Un altro aspetto che distingue la terapia esistenziale è la sua protesta contro i consueti concetti di “guarigione” nella nostra civiltà. Questi concetti generalmente accettati, come conseguire un adattamento soddisfacente e vivere il più a lungo possibile, sono in sè una negazione del “Dasein”, un tradimento dell’ essere di quel dato paziente. Gli analisti esistenziali sottolineano che il tipo di guarigione che consiste nell’ adattamento (cioè, nel diventare capaci di adattarsi alla civiltà) spesso si può ottenere abbastanza facilmente con mezzi tecnici nella terapia, poichè la preoccupazione centrale nella nostra civiltà è che ognuno viva in modo calcolato e tecnicamente ben diretto.
Raggiungendo questo scopo il paziente accetta senza conflitto il suo mondo ristretto, poichè ora il suo mondo è identico alla civiltà. E poichè l’ angoscia proviene soltanto dalla libertà e dalle possibilità di nuove forme di comportamento, il paziente naturalmente supera la sua angoscia. Può anche sentirsi alleviato dai sintomi che lo portarono in terapia, poichè quello che ha fatto è precisamente di rinunciare alle possibilità che sono alla base della sua angoscia e dei suoi sintomi. Questo equivale a essere “guariti” rinunciando ad essere, rinunciando all’esistenza, perdendo il diritto al “Dasein” (letteralmente: “esserci”). I terapeuti esistenziali sono fortemente contrari a considerare questa “guarigione” come scopo della terapia. Essi sostengono che ai nostri giorni c’è un grave pericolo che gli psicoterapeuti diventino gli agenti particolari della civiltà, il cui compito sia di adattare le persone alla civiltà, e che così la psicoterapia diventi un’ espressione della frammentazione, dell’ alienazione e di altre tendenze nevrotiche dei nostri tempi piuttosto che un tentativo di superarle.
Nella terapia esistenziale si afferma invece che lo scopo della terapia è che il paziente comprenda il suo modo di “esserci” e di essere nel mondo, che sperimenti la propria esistenza come reale e la sperimenti completamente, il che comprende la sperimentazione delle proprie possibilità e la capacità di agire in base ad esse. Dare un senso alla propria vita, attraverso la identificazione e realizzazione di un progetto esistenziale che non può non tenere conto della libertà non disgiunta dalla responsabilità.
Un’ultima implicazione è l’importanza attribuita all’impegno nella terapia esistenziale. Anche questo aspetto ha una lunga storia, che inizia dall’ idea di Kierkegaard che “la verità esiste per l’individuo solo se la produce nell’azione”. “Impegno”, in questo senso, non è semplicemente una cosa vagamente buona, o qualche cosa cui attribuire l’etichetta “valori etici”, che si può prendere o lasciare. Piuttosto è un requisito primo perchè il paziente abbia una visione veritiera di sè. Attualmente in genere si suppone che, man mano che il paziente acquista un maggiore insight e una maggiore conoscenza di sè, prenderà le decisioni più opportune. Questo è vero solo per metà. Altrettanto importante è l’altro lato della verità: il paziente non può permettersi di acquisire l’ insight , o di riconoscere anche fatti abbastanza evidenti, fino a che non è più capace di prendere le decisioni con facilità e, o finchè non abbia già preso impegni. Usiamo qui il termine “decisione” non nel senso di “fuori il dente fuori il dolore”, ma piuttosto come un orientamento decisivo verso la vita, l’orientamento dell’essere umano autocosciente che prende sul serio e con responsabilità la propria esistenza. La comprensione stessa dell’esserci implica già l’orientamento dell’impegno. Questo non è inteso nel senso di servirsi di una decisione prematura come di un modo per evadere dal lungo processo, più difficile, e forse più ansiogeno, di aumentare l’ autocoscienza. L’ autocoscienza fa però parte dell’esserci e non può mai essere separata dalle implicazioni operative. I punti dell’ impegno e della decisione sono quegli aspetti in cui la dicotomia tra soggetto e oggetto è superata nell’ unità della prontezza all’azione. L’esserci è sempre orientato verso il futuro, verso il divenire; e questo implica l’ orientamento dell’ impegno. È necessario, per concludere, fare un’osservazione circa l’atteggiamento della psicoterapia analitica esistenziale verso l’inconscio La psicoterapia esistenziale tende a non dividere gli essere umani in compartimenti chiusi; l’ essere umano deve a lungo andare essere indivisibile.
È vero che la teoria dell’ inconscio ha avuto una notevole influenza sulle tendenze contemporanee a razionalizzare il comportamento, ad agire come se non fosse l’individuo a compiere l’ azione, e a evitare la realtà della propria esistenza (l’espressione popolare esprime bene questa tendenza, “non l’ho fatto io, ma il mio inconscio”). Ma qui si vuole proprio rifiutare la visione “a compartimento” dell’ inconscio e con questo non si intende negare l’importante contributo di Freud al significato storico di questo termine. La grande scoperta di Freud fu rendere più vasta la sfera della persona umana al di là dell’immediato volontarismo dell’ uomo dell’ età vittoriana e della pretesa trasparenza cartesiana della coscienza umana nei confronti di sè stessa; e di includere in questa sfera più vasta le pulsioni irrazionali, cosiddette rimosse e inaccettabili, gli aspetti dell’ esistenza. Il simbolo di questo vasto ampliamento del dominio della persona fu “l’inconscio”. Il fatto che la teoria dell’ inconscio può essere facilmente usata in modo troppo semplicistico e meccanicistico non deve portare alla negazione del suo significato fondamentale, che rappresenta uno dei più notevoli progressi compiuti ai nostri giorni per la comprensione degli esseri umani. Binswanger propone una soluzione temporanea dicendo che, per ora, i terapeuti esistenziali non potranno fare a meno del concetto di inconscio, ma reinterpretato nel suo significato più vasto. Certamente ci occorre un concetto più complesso dell’ inconscio in cui esso non sia visto, implicitamente o esplicitamente, come un comportamento, ma sia basato fermamente sull’ analisi dell’ esistenza dell’ essere umano nel suo insieme, che è intimamente indivisibile. Nella prospettiva esistenziale il terapeuta più che un tecnico in senso stretto è un facilitatore nel rapporto di terapia. Da ciò la grande importanza che i terapeuti esistenziali attribuiscono alle qualità personali del terapeuta.
L’analisi esistenziale si avvale di molti strumenti tecnici psicoanalitici. Binswanger ritiene inoltre che una terapia esaustiva, oltre a comportare l’abbandono dell’eccesso di difese o delle soluzioni inadeguate in una presa di coscienza man mano più profonda (fase psicoanalitica della terapia), debba anche aiutare le persone a riconoscere come i limiti della propria costituzione fisiologica e la realtà del proprio ambiente relazionale siano stati sì elementi influenti nella strutturazione della problematica attuale, ma anche come grandissima importanza abbia l’utilizzazione che di tali limiti il paziente stesso ha fatto per abdicare alla propria responsabilità personale nella vita. Altri aspetti caratteristici del lavoro analitico esistenziale sono:
- attenzione al qui ed ora nel gruppo (comprensione del comportamento delle persone a partire dalla loro modalità – più o meno autentica – di “essere nel mondo”);
- comunicazione come reciproca presenza (i membri del gruppo offrono i loro vissuti attuali lasciandosi mutuamente impressionare e reagendo con spontaneità);
- trasformazione progettuale della posizione insoddisfacente o patologica mantenuta sino al presente;
- partecipazione del terapeuta nella realizzazione dell’incontro esistenziale. Gli allievi, quindi, si confronteranno con un impianto formativo che parte dallo studio teorico della psicoterapia psicanalitica, integrata con la posizione fenomenologico-esistenziale, nonchè delle psicoterapie, approfondisce il lavoro formativo attraverso un lavoro analitico personale e di gruppo, senza confusione di setting, incontra il lavoro clinico nel tirocinio annuale che andrà a verificare ed approfondire ulteriormente nell’attività di supervisione tesa a verificare la preparazione clinica, nonchè la crescita personale dello specializzando.
- Da qui l’esigenza di rivalutare il presente e, al posto delle cause, di rivolgersi ai processi. In tal modo si conferisce un ruolo centrale alla terapia di gruppo gestito da una coppia di terapeuti e al rapporto faccia a faccia, nella terapia individuale. Questa modalità permette non solo di utilizzare la proiezione, ma di far emergere sentimenti trattenuti, frutto di comportamenti nevrotici ripetitivi, e di favorire l’abreazione di essi.Gli allievi, quindi, si confronteranno con un impianto formativo che parte dallo studio teorico della psicoterapia psicanalitica, integrata con la posizione fenomenologico-esistenziale, nonchè delle psicoterapie, approfondisce il lavoro formativo attraverso un lavoro analitico personale e di gruppo, senza confusione di setting, incontra il lavoro clinico nel tirocinio annuale che andrà a verificare ed approfondire ulteriormente nell’attività di supervisione tesa a verificare la preparazione clinica, nonchè la crescita personale dello specializzando.